mercoledì 12 aprile 2017

Ritratti di confine - reportage dalla Turchia

1- L'arrivo in Bulgaria

È il momento. Ho questa illuminazione nell'attimo in cui apro di scatto le palpebre degli occhi e vengo abbagliato dalla luce del telefono. Sono le cinque meno dieci del mattino e so che dovrò infilarmi i vestiti freddi addosso e correre all’aeroporto a prendere il mio volo diretto per Sofia, capitale della Bulgaria. 

In quell’istante mi rendo conto che la giornata prenderà una piega diversa dal solito e i pensieri volano alti come nuvole leggere di viaggiatori baudelairiani.
Allora ripeto d’istinto i movimenti a cui sono abituato, senza prestare attenzione alla voglia che avrei di rinfilarmi sotto le coperte. Mi infilo il terzo paio di calzini e mi carico in spalla lo zaino. So bene che quando tornerò non sembrerà così pesante come adesso.  

La sera, al mio arrivo a Sofia trovo Julia ad accogliermi, un'allegra ragazza del posto che mi ospita grazie a Couchsurfing (sempre sia lodato). Dormirò nell’appartamento in centro, che di giorno usa come ufficio per la su NGO.
Conoscere una persona nuova e venire ospitati a dormire nella sua casa lo stesso giorno crea situazioni che non smettono mai di sorprendermi. Mentre penso a questo, inizio con calma a togliere improbabili peluche dal divano letto in velluto marrone. Julia ha avuto esperienza con più di 100 contatti su Couchsurfing, tutti viaggiatori provenienti da chissà quale parte del mondo hanno dormito prima di me su quel divano. Speriamo abbia lavato le coperte.

Comunque non male come primo giorno. 





2- Istanbul

Siamo nell’aspra terra bulgara quando ormai il buio ha inghiottito il paesaggio attorno a noi e l’autobus corre veloce seguendo il percorso di lampioni disposti in fila lungo l’autostrada.
Destinazione finale: Istanbul.

Dico “siamo” anche se qui dentro sono l’unico vero estraneo fra i turchi che mi circondano. Il personale è formato da grassi autisti che si alternano alla guida durante la notte, inflacciditi da un lavoro sedentario e sfibrante. Hanno occupato tutto lo spazio sul fondo del bus e per passare lungo il corridoio si mettono di fianco mentre servono del the ai passeggeri.
Dormire è praticamente impossibile quando due file di fronte a me sento un bambino che comincia a strillare, un classico di ogni viaggio. Proprio quando avevo cominciato ad abituarmi al suo pianto straziante e al movimento sussultorio del bus, vengo svegliato da dei ragazzi seduti vicino a me: siamo arrivati alla frontiera. 

Controllo la geo-localizzazione sul mio telefono e vedo che siamo esattamente dove i confini di Grecia, Bulgaria e Turchia si incontrano in un tripudio di geopolitica e controlli di frontiera.
In quaranta scendiamo dall’autobus mentre in aria si sollevano le nuvole dei nostri respiri che cominciano a tremare per il freddo e vediamo militari in lontananza con l’aria piuttosto incazzata che sorreggono dei mitra con entrambe le mani.  

Sono l’ultimo a cui viene chiesto il controllo e nella mia testa si imprime la fatidica domanda: ma siamo sicuri che basti la carta di identità per passare?
Che cazzo di ansia. Perchè doveva venirmi adesso questo dubbio?

Al controllo passaporti dentro un abitacolo siede un ragazzo giovane e senza barba. Allungo timidamente la mia carta di identità tutta stropicciata timbrata “COMVNE SCARPERIA E SAN PIERO” che mi strappa dalla mano.
Mi sento come un Etrusco alle porte dell’Impero Romano d’Oriente, di fronte a me: Costantinopoli.
Il ragazzo mi osserva con aria sospettosa ma poi mi restituisce indietro la mia carta insieme al visto di ingresso in Turchia. Con un gesto della mano mi fa cenno di oltrepassare la fatidica linea immaginaria segnata sull’asfalto e con uno scatto felino finalmente sono dentro l’Impero Ottomano: e daje!

Finisco presto di festeggiare perché ritornati in autobus aspettiamo altre due ore prima che ci venga chiesto di scendere nuovamente per ripetere tutta la procedura daccapo. Questa volta con l’aggiunta di metal detector e ispezione completa di tutto il bus.

Dopo aver aspettato più di due ore alla frontiera alla fine decidono di lasciarci passare e finalmente sento riaccendere il motore del bus.
La strada scorre liscia e ci addormentiamo tutti. Al nostro risveglio è già l'alba in Medio Oriente. 





3- Un thè con i siriani

È l’ultimo giorno del progetto a Maraş, nel Sud della Turchia, e sentiamo che questa città ha ancora da regalarci qualcosa di inaspettato.
Torniamo a visitare il quartiere siriano, un'area che si erge su una collina dove case grigie e senza tetti hanno cominciato come ad accatastarsi l’una sull’altra. Nei giorni scorsi avevamo già esplorato questa zona ma senza risalire le piccole strade che portano in alto, così con un piccolo gruppo iniziamo a camminare.



Sono tantissimi i siriani che vivono in questa zona, tutta la città di Maraş conta più di 400mila abitanti. Nella strada principale i ristoranti tipici siriani disperdono nell'aria l’odore di hummus e falafel, a cui ovviamente non abbiamo saputo resistere.




Risalendo per le vie secondarie incontriamo ragazzini che giocano a calcio e una bambina che disegna da sola con dei gessetti colorati sull’asfalto. Ci saluta con lo sguardo.
In questo momento accade qualcosa di inaspettato, quando un signore alla terrazza ci dice qualcosa nella sua lingua. Amina, una ragazza del nostro gruppo, grazie alla sua conoscenza del turco ci traduce quello che ha detto: siamo stati invitati ad entrare in casa sua!



Sui nostri volti si disegnano espressioni che dire stupite sarebbe un eufemismo. Non esitiamo un attimo ad accettare l’invito del signore che intanto ci indica da quale porta entrare.
Conduco la fila lungo delle scale strette costeggianti un cortile interno che è stato adibito a pollaio dai suoi residenti. Al piano di sopra veniamo salutati in una terrazza da un nutrito e inaspettato gruppo di persone che ci accolgono dentro casa loro. Ci invitano a toglierci le scarpe e sederci sul loro tappeto in salotto.

Il più entusiasta del gruppo è proprio il signore che ci ha invitati, evidentemente il capofamiglia. Ha una folta barba brizzolata e uno sguardo ipnotico. Insieme a lui ci saluta suo figlio più grande e i suoi due nipoti. Arriva anche sua moglie che dopo averci osservati attentamente ci chiede se vogliamo del the.
Faccio un po’ fatica a rendermi conto di dove sono finito e inizio a scattare delle foto per immortalare questa compagnia inaspettata.



Tramite Amina iniziamo a parlare con il nostro nuovo amico, che nel frattempo si accende una sigaretta. Ci racconta la loro storia incredibile mentre mostra le foto della loro casa distrutta ad Aleppo. È da un anno che sono scappati dalla Siria, tutta la famiglia al completo con donne e bambini. Ci racconta del loro contributo nella resistenza di Aleppo, dove ha combattuto insieme al figlio e suo fratello, fino a che non sono dovuti scappare.



Non ha un’aria triste mentre ci parla di queste cose, anzi. Dice di essere felice di averci incontrati e poter raccontare la sua storia a dei ragazzi giovani. Noi non possiamo che esprimere tutta la nostra gratitudine per la loro accoglienza e dopo mille saluti lasciamo la casa.
Non ricordo quanto siamo rimasti insieme a loro a parlare, ma una volta usciti rimaniamo tutti elettrizzati per questo incredibile incontro. Sentire la testimonianza di queste persone ed entrare nella loro casa è una cosa di cui nessuno di noi si sarebbe aspettato prima di partire. In assoluto uno dei momenti più emozionanti di tutto il viaggio.





























Testo e foto di Guido Paoli